Bebop: caratteristiche e musicisti del sottogenere del jazz diventato celebre negli anni Quaranta e amato dai letterati della Beat Generation.
Tra i vari generi o sottogeneri che hanno fatto la storia della musica, troppo spesso viene sottovalutato il ruolo assunto dal bebop (spesso abbreviato in bop) nella scena newyorkese degli anni Quaranta. Evoluzione moderna e innovativa del jazz, caratterizzata da tempi veloci e elaborazioni armoniche nuove, originali, nacque per contrapporsi agli stili jazz ormai divenuti standard di alcune big band di quel periodo, ma finì per assumere i connotati della ribellione giovanile, dei cosiddetti bopper, alla staticità del mondo della musica dell’epoca. Anche per questo fu amatissimo dai letterati della Beat Generation, su tutti da Allen Ginsberg, ma anche da Jack Kerouac, che ne tessero le lodi in diversi scritti poetici e in prosa.
Cos’è il bebop
Il termine bebop nacque da un’onomatopea che voleva simboleggiare la brevissima frase di due note usata in alcuni casi come segnale per chiudere un lungo brano. Uno dei primi a utilizzarlo fu Dizzy Gillespie, tra i capostipiti di questa deriva jazz, che intitolò così una delle sue composizioni più note.
Provando a tracciare la storia delle origini di questo sottogenere, bisogna necessariamente contestualizzare la situazione di quel periodo. Nel pieno della Seconda guerra mondiale, le case discografiche erano pronte a far dimenticare i problemi sociali alla popolazione ‘distraendola’ con una musica tranquilla, pacata e coinvolgente, come lo swing delle big band di artisti come Benny Goodman e Glenn Miller, spesso composte da musicisti bianchi che avevano assimilato perfettamente il linguaggio di una musica nata e cresciuta dalla popolazione nera.
Fu proprio come reazione a queste big band e ai loro sorrisi ipocriti e imposti che molti musicisti neri iniziarono a proporre un genere di musica differente, specialmente in alcuni club di New York come i celebri Monroe’s e Minton’s. Per far ballare le persone, in questi club musicisti come Charlie Christian, Thelonious Monk, Dizzy Gillespie, Kenny Clarke e Charlie Parker iniziarono a esibirsi completamente liberi dai leader d’orchestra, sperimentando nuove soluzioni e cambiando per sempre il concetto stesso di musica jazz.
Bebop: le caratteristiche del genere
Le caratteristiche di un sottogenere elitario e di nicchia, ma fondamentale per lo sviluppo successivo del cosiddetto jazz mainstream, quello portato ai massimi livelli da artisti come Miles Davis, sono difficili da definire. In sostanza, dal bop veniva escluso tutto ciò che era banale, scontato, facilmente ballabile e già gradito a gran parte del pubblico dell’epoca. Si cercava la novità, la rottura a tutti i costi. Così i brani, partendo dall’esposizione suonata all’unisono di un determinato tema, iniziavano a deliziare e sorprendere i presenti con numerosi improvvisazioni, fino a rientrare nel coro con la riproposizione del tema come finale. Il risultato erano non solo brani spesso molto lunghi, ma anche economici per quanto riguarda i diritti d’autore (che si applicano alle melodie e ai testi, non alle progressioni armoniche), spezzettati, scattanti, nervosi e rapidi.
Ridotta era la composizione delle band bop. Dalle big band si passò a dei combo composti da tre a sei o massimo sette elementi, combo che vedevano al loro interno tromba, sax, talvolta trombone, pianoforte, contrabbasso e batteria. Grazie a queste composizioni ridotte i gruppi potevano essere ospitati anche in piccoli locali, con cachet non troppo importanti, di fatto dando impulso dal basso a un movimento che avrebbe cambiato per sempre la storia del jazz e della musica a livello mainstream, grazie anche ai successi di artisti leggendari come il già citato Dizzy Gillespie e, soprattutto, Charlie ‘Bird’ Parker, forse il sassofonista più famoso di tutti i tempi. Di seguito un audio della sua The Bird:
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